We are the insane as we ignore the mirror’s truth

giugno 8, 2008 - Leave a Response

Perplesso.
Se dovessi riassumere il mio stato mentale dopo il primo ascolto di A Sense of Purpose, l’ultima fatica degli svedesi In Flames, non potrei che riassumerlo con questo termine.
Perplesso.
Non siamo davanti ad un capolavoro post Reroute to Remain, vale la pena precisarlo, giusto per inquadrare lo stile da analizzare e rintuzzare sul nascere la teoria di critiche pronte a levarsi. Giustificate dopo tutto.
L’album si presenta come un proseguimento naturale, anche se non del tutto ben riuscito, di quanto già elaborato nel precedente Come Clarity.
A partire dalla copertina, che ricorda molto lo stile adottato dai Korn di Follow the Leader.
Chitarre distorte e una veloce rullata di tamburi segnano l’inizio della prima traccia dell’opera: The Mirror’s Truth.
Già da questo primo pezzo è possibile notare un trend che si ripeterà sino all’ultima canzone, caratterizzato da uno stile fortemente Metal Core, con riff minimalisti, un martellante e pregevole lavoro di percussioni, assenza quasi totale di assoli, se non come mero contorno.
Nonostante l’indigenza di originalità, la prima traccia colpisce proponendo delle gradevoli improvvisazioni, unite ad un buon accompagnamento di chitarra e l’ottimo cantato di Fridén, che sfodera una discreta pulizia nel chorus.
A seguito, troviamo Disconnected, altra buona traccia che inizia con un verse poco convincente per approdare quindi in un chorus dove è impossibile non notare l’ottimo lavoro di Svensson alla batteria, che abbandona la turbinante doppia cassa per prediligere un lavoro di ride e charleston molto gustoso.
Da sottolineare l’improvvisazione di pochi secondi nella parte immediatamente finale, che lascia un po’ l’amaro in bocca per la sua brevità.
La terza traccia, Sleepless Again, è forse la migliore di tutto l’album.
L’intro ricorda molto le sonorità ormai perdute di The Jester Race, ma è solo un attimo, e tutto svanisce.
Il pezzo si conferma molto convincente, sia per il discreto lavoro di keyboard che per una lead guitar che si lascia andare in riff del tutto azzeccati. Pregevolissima l’improvvisazione di batteria del terzo minuto.
Ancora la keyboard la fa da padrone in Alias, traccia che segna un leggero calo di qualità del percorso sonoro.
I tempi si adagiano su un andamento molto più contenuto, senza particolari stravolgimenti, escludendo la melodica unione di accompagnamento e riff con chitarre pulite all’approssimarsi del terzo minuto.
Arrivati a questo punto, si entra in una modesta fascia di bonaccia, delimitata dalle tracce I’m the Highway, Delight and Angers e Move Throught Me, con particolare mensione alla poco convincente seconda della lista, sia sotto l’aspetto musicale che testuale.
L’evidente calo di qualità raggiunge l’apogeo in The Choosen Pessimist, traccia che strizza molto l’occhio alle sonorità di cui Your bedtime story is scaring everyone dell’album precedente si fa portavoce.
Il pezzo non è convincente, tanto da poter essere catalogato come esperimento fallito.
Compito della decima traccia è quello di riprendere le redini dell’album e risollevare l’andamento qualitativo.
Impresa che riesce grazie ad un chorus particolarmente orecchiabile, nonostante la canzone pecchi nuovamente di originalità, nel complesso.
La conclusione dell’album è affidata alla coppia Drenched in Fear e March to the Shore.
Delle due, rilievo particolare viene dato alla prima, che vanta un semplice ma incisivo riff sul primo e secondo verso ed una serie di cambi di tempi al ridosso del chorus senza dubbio ben inseriti.
Il disco si conclude senza troppe pomposità, lasciando un accenno di amaro in bocca, ormai abbastanza frequente nelle recenti produzione della band europea.
E’ vero, non ci troviamo davanti ad un sensazionale capolavoro e, nonostante il calo centrale di qualità, l’album riesce a convincere, soprattutto durante successivi ascolti.
Date queste premesse, mi sento di promuovere quest’album con un 7,5 su 10.
Attendendo speranzoso tempi migliori.

felicità (plurale)

Maggio 18, 2008 - 3 Risposte

<<Conosceva mia madre?>> chiesi inginocchiandomi davanti a lui.
<<Sì, certo>> rispose il vecchio mendicante. <<Chiacchieravamo sempre dopo le lezioni. L’ultima volta che le ho parlato è stato in un giorno di pioggia, poco prima degli esami di fine anno. Abbiamo mangiato una meravigliosa fetta di torta alle mandorle. Torta di mandorle e miele, con il tè. Era vistosamente incinta e la gravidanza la rendeva ancor più bella. Non dimenticherò mai ciò che mi disse quel giorno.>>
<<La prego, me lo racconti!>> Baba mi aveva sempre descritto la mamma con frasi lapidarie tipo: “Era una gran donna”. Ma io ero avido di dettagli: come socchiudeva gli occhi al sole? Qual era il suo gelato preferito? Che canzoni amava cantare? Si mangiava le unghie? Forse il nome della mamma gli ricordava la sua colpa, ciò che aveva fatto subito dopo che era morta. Forse la perdita era stata così dolorosa che non riusciva a parlare di lei. O forse entrambe le cose.
<<Disse: “Ho molta paura”>> raccontò il mendicante.
<<“Perché?”, le chiesi, e lei mi rispose: “Perché sono profondamente felice, dottor Rasul. Una felicità come la mia spaventa”. Gliene chiesi la ragione. “Si prova una felicità così grande solo quando la si sta per perdere.” E io le dissi: “Zitta. Basta con queste sciocchezze.”>>

Khaled Hosseini – Il cacciatore di aquiloni

Monopòli raggelanti

Maggio 10, 2008 - Leave a Response

Molto presto, in Australia, se un utente vorrà acquistare un EeePC della Asus con Linux preinstallato, dovrà spendere di più rispetto allo stesso modello con Windows XP. [fonte]

Ebbene sì, i nuovi modelli di EeePC, verranno introdotti tra breve sul mercato Australiano e costeranno 649 Dollari, nella versione con Xandros Linux preinstallato e 599 Dollari per i modelli con Windows. Quest’ultimo prezzo, in particolare, tiene conto anche della Licenza D’uso che ogni utente deve pagare per gioire dell’inefficienza degli alti tempi d’avvio del software di Redmond; sia per quanto riguarda il sistema operativo piuttosto che il pacchetto per l’ufficio messo a disposizione.
Facendo una rapida sottrazione, noterete cinquanta Dollari di Tassa per l’acquisto di Sistemi Open Source.
Sì, perché di tassa e di dittatura commerciale qua si parla.
Cinquanta dollari che l’Asus userebbe per abbassare il prezzo del corrispettivo hardware con codice proprietario.
Cinquanta dollari che l’Asus ha pensato bene di fare pagare ai propri clienti solo per penalizzare e demotivare l’uso di sistemi Open.
Cinquanta dollari che un utente dovrà spendere per effetto di una monopolistica manovra commerciale atta a salvaguardare gli interessi di Microsoft.
Raggelante.

Molto presto, in Australia, se un utente vorrà scegliere efficienza e superiorità strutturale, dovrà pagare 50 schifosissimi dollari in più, per giustificare un sovrapprezzo selvaggio e insensato.
Tutto ciò è disgustoso, se poi aggiungiamo quanto detto alle dichiarazioni dell’azienda taiwanese, secondo la quale Microsoft è da molto tempo collaboratore Asus.
Una giustificazione banale e vergognosa.
Che questa sia una mera strategia commerciale, spalleggiata da Ballmer e compagnia bella, per agguantare una grossa fetta degli introiti garantiti dal nuovo mercato dei laptop low-cost, è più palese che mai.
Che poi non si faccia nulla per nasconderlo, è ancor più disgustoso.

Inutile dire che non comprerò portatili Asus, né fissi Asus, né schede video/audio/cattura TV/rete/wireless/ethernet/infranet/LAN/WAN/eBimBumBam Asus.
Se qualcuno dovesse avvicinarsi a me e, con un largo sorriso, elargirmi roba gratuita marchiata Asus, dovrà fare conti con le mie più energiche rimostranze, da adesso in poi.

In un mercato dominato da un monopolio serrato Microsoft, che non solo governa facendo uso della sua infinita riserva aurea, ma altresì esercitando una leva sulla paura – la stessa paura che strega gli animi degli utenti secondo i quali Linux è il male, è inutilizzabile e “ma se installo linux, poi posso usare MSN Plus?” -, esiste qualche sparuto barbaglio di speranza.
Parlo di DELL, e dei suoi portatili con Ubuntu preinstallato*, una mossa elegante e lungimirante per distinguersi dalla massa di ignoranti produttori/assemblatori di PC.

Beh, io l’ho notato.

*   Anche se sul sito Italiano tale opzione, purtroppo, non è al momento selezionabile.

Lettere, Episodio 2

Maggio 5, 2008 - Leave a Response

L’uomo con il mondo dentro

Si dev’essere molto soli, per avere un mondo dentro.

“Mio Carissimo David,

lo so che per te sarà strano risentirmi, dopo tutto quello che è successo, ma, io ci tenevo a rispettare la promessa.
Quel giuramento fatto prima di partire, nel locale di Luis, tra qualche tazza di caffè sapido e quelle ciambelle stracolme di gocce zuccherate. Le stesse fatte con farina, zucchero, latte e catrame, a tuo dire.
Il ricordo mi fa tanta tenerezza.
Avevo promesso che se ci fosse stata qualcosa che avrebbe cambiato indissolubilmente, indefettibilmente la mia vita, tu saresti stato il primo a saperlo.
Così, ti scrivo questa lettera, sotto il cielo della notte di questo piangente cinque maggio, proprio stretta tra stelle e lacrime, amico mio.
Non so da dove iniziare per spiegarti quello che mi è successo, molto probabilmente, mentre leggerai queste righe esclamerai: “dall’inizio, stupido coniglio!”.
La solita imbranata.
Allora inizierò proprio da lì, che dici?
Esattamente un mese fa, una mattina persa tra i giorni di un piovoso aprile, incontrai qualcosa che avrebbe dato un senso alla mia esistenza.
Arrivai molto presto all’ospedale, non v’era molto da fare, tutto sembrava molto calmo.
Scambiai qualche parola con Sally alla Reception, parlando del più e del meno, quando socchiudendo gli occhi ed avvicinando il capo, con discrezione e confidenza, mi narrò del giovane della stanza centotrè.
“Fai un salto da lui più tardi, magari gli fai un po’ di compagnia, sta sempre solo quel povero disgraziato.”, disse.
Sally era una brava madre di tre figli, ma non aveva mai avuto molto talento nel trattare con ragazzi e ragazzini. Che i suoi figli fossero cresciuti sani, diligenti e non affetti da malattie veneree, ti giuro, era quasi un miracolo.
Comunque.
Andai in questa stanza, la centotrè, seguendo la dritta di Sally.
Ciò che vidi fu un ragazzo dalla luminosa chioma bionda disteso su un’enorme branda, con le spalle appoggiate alla testiera metallica. Un raggio di luce fendeva le placche delle tendine e illuminava il suo capo rivolto all’esterno; lo sguardo disperso tra gli edifici grigi e sporchi e le montagne innevate sullo sfondo.
Feci qualche passo e mi sedetti su una sedia accanto a lui, sussurandogli: “Non si vede un bel panorama da qui.”.
Lui si voltò, e nei suoi occhi vidi una quieta beatitudine che mi stupì.
“Magari è perché non lo sai guardare.”, mi rispose, ed il mio cuore ebbe un sussulto, poiché le sue parole vibravano. Sapevano di tutto.
Iniziammo a parlare, ed il tempo trascorse molto velocemente. Fece colpo su di me immediatamente.
Si chiamava Eric, era un ragazzo molto giovane, aveva solo diciannove anni, ma parlava come un oracolo, e mostrava una saggezza fuori dal comune. Qualcosa di assolutamente incredibile.
Io non sapevo perché, ma ogni volta che lo rivedevo il mio interesse cresceva, e cresceva. Nei giorni successivi, io tornavo da lui come una ragazzina che torna dal nonno per ascoltare nuove rutilanti storie. Mi faceva sentire così strana.
Non mi volle dire per quale motivo era ricoverato lì, in quella solitaria stanzina dell’ospedale, così, tra un turno e l’altro, quando non ero da lui, indagavo qua e là, tra medici e colleghi.
Scoprì che i suoi genitori erano dei ricchi contribuenti dell’ospedale e che era ricoverato per un forte disturbo di Tourette. Inoltre gli era stata diagnosticata una grave malformazione al cuore, che lo aveva reso troppo grande per il suo petto.
Un buffo e triste paradosso, quello di un cuore troppo grande per la sua piccola cassa toracica.
Io non vedevo nulla di anormale in quel ragazzo, a parte quel calore che conferiva alle parole, quei gesti ieratici, quello sguardo penetrante.
Così, una sera di due settimane fa, davanti alla tv, stravaccata sul divano, mi venne la voglia di andarlo a trovare, svegliarlo di notte e stare un po’ con lui, non come due amanti, ma due amici intimi, stretti assieme in una notte illuminata da un chiarore lattiginoso e diafano.
Entrai nell’ospedale con molta discrezione e mi diressi alla stanza centotrè, stringendo sotto il braccio una confezione di cartone rosa, contenente cinque ciambelle preparate la sera prima.
Arrivata alla porta, pensai di sbirciare all’interno, colta da un improvviso ripensamento. Forse non era stata una grande idea avventurarmi lì, nel cuore della notte.
Poi, con la coda dell’occhio notai un movimento all’interno, sporsi la testa in avanti e vidi Eric sconvolto da violenti tremori.
Il suo corpo si contorceva come impazzito e dalla sua bocca fuoriuscivano gemiti sincopati, come in un’anormale danza isterica.
Pensavo d’avere capito la forma e la misura del suo disturbo, quando, ad un tratto, esplose.
Sì, hai letto bene David, vidi la sua sagoma scura stagliata contro i fari accesi del cerchio lunare esplodere.
E da lì ad un attimo, la stanza fu ricolma di arcobaleni arditi, pronti a solcare fiumi di ridenti acque e campi di grano accarezzati da onde di vento salmastro. Vidi barche beccheggiare sulla superficie increspata di un mare blu profondo e stormi di gabbiani disperdersi nel chiaro orizzonte, gioiendo del loro canto così alto e del libero arbitrio.
Vidi tutto quello, e subito dopo non vidi nulla.
Entrai nella stanza, sgomenta, e lui non c’era.
Così decisi di aspettare il mattino, ma il sonno mi prese e non riuscì a rimanere sveglia.
Furono le prime luci dell’alba a farmi riprendere e, David, fu in quel momento che vidi il miracolo.
Eric era lì, disteso sul letto, con il suo sguardo perso tra edifici e montagne.
Era lì; si voltò e mi sorrise: “Si dev’essere molto soli per avere un mondo dentro.”, disse.
Allora capì il perché di molte cose, David, di lui e di me.
Ogni notte mi recavo lì, per vederlo esplodere e fondersi con il mondo.
Non soffriva di alcun male, David, semplicemente, quel corpo era troppo insignificante per contenere una creazione così immensa.
C’era tutta un’altra esistenza che cercava di venire fuori nelle sue parole, nelle sue opere, nei suoi gesti. Ma ne usciva solo una piccola parte, tutto il resto non riusciva a trasparire da passaggi così piccoli e poco duraturi.
Così, di notte lui esplodeva in mille tripudi di colore, e tornava a fluire nel mondo.
Ero completamente affascinata da quella magia, aspettavo impazientemente il tramonto per andare a vederlo ed ammirarlo, ed ogni mattina mi svegliavo con il suo sorriso.
Però, un giorno, lui non tornò.
Decise di rimanere nel mondo, con il mondo.
Di lui non era rimasto che un bigliettino, giacente sul lenzuolo blu della brandina ospedaliera.
“A nutrire tanto, troppo amore, per tutto quello che c’è di buono, alla fine esplodi.”.
Era un’indicazione, non un addio. Io la colsi subito.
Avevo capito il segreto, David, ed ero pronta a provarlo sulla mia pelle.
Così, la sera stessa, provai a seguire il suo consiglio, a trovare ciò che di buono c’era in me e nel mondo, ed a unire tutto ciò con la beatitudine dell’amore. Sentire tutto dentro di me e parte di me.
Lo feci, e le mie mani iniziarono a muoversi da sole, scomposte in mille gesti scattosi e compulsivi. Vidi il mondo allargarsi e poi restringersi, e mi sentii come un sasso trascinato da un torrente.
E’ qualcosa di indescrivibile David, ma ha dato senso alla mia vita.
Ed adesso, eccomi qui, pronta a vivere e morire, persa nella solitudine della mia stanza, con un foglio sul tavolo ed una penna in mano, a scriverti.
Voglio tornare, David, voglio tornare da lui e da quel mondo che per troppo tempo ho tenuto lontano dal mio cuore. Lo voglio davvero.
So cosa farò adesso, mi sdraierò sul divano e metterò su la mia canzone preferita, mi rilasserò e mi lascerò andare tra le braccia di questo così gradevole caos.

Un’esplosione, David, un culmine al centro del cielo della mia esistenza.
E chissà, che anche tu, in cuor tuo, non la possa ammirare.

Con affetto, Rose.”

Lettere, Episodio 1

Maggio 3, 2008 - Una Risposta

Tim dei Senza Paura

Se tu affoghi, io voglio affogare con te.

“Cara Elène,

saranno passati, quanto? Dieci, o forse quindici anni dall’ultima volta che ci siamo sentiti. E’ molto tempo, sai? Da allora, niente è cambiato, almeno per me.
La mia vita prosegue tranquilla, immersa nel silenzio secolare dei pini che ombrano la mia casa e il vento che oramai porta con sé una fraganza di gelso e lavanda. E’ di nuovo primavera, mia carissima amica.
Sono proprio curioso di sapere come va la tua, cosa ne è stato del piccolo Anthony a cui piaceva tanto dondolarsi a testa in giù dai rami di Occhione, di Tom ed il suo perenne broncio, oppure di Mary, la più piccola dei tre. Ancora ricordo, anche se è passato tanto tempo: ogni giorno tornava a casa con dei bernoccoli da record!
Bei tempi.
Ma, in tutta sincerità, ti scrivo più per parlarti di me, anche se il mio cuore anela più che mai poterti rivedere o risentire, prima di andarmene per sempre.
In questi giorni ho ripensato molto al piccolo Tim, lo ricordi?
Tim dei Senza Paura, colui che poteva Scalare la Cascata, riesci a ricordarlo?
Io lo ricordo Elène, l’ho portato nel cuore per settantotto lunghissimi anni, proteggendolo dai venti gelidi delle notti sperdute d’inverno e dai grigi pianti d’autunno.
Lo ricordo bene, ma in questi giorni mi sembra ancora di risentirlo come quando ero ragazzino.
Nessuno sa come se ne è andato, molti pensavano che fosse morto, portato lontano da quel padre troppo brutale, dalla mano pesante e l’alito che puzzava d’alcool. Però, io so come è andato via.
Io l’ho sempre saputo Elène.
Ma non ho voluto mai dirlo a nessuno, perché quell’addio era mio, era il suo sanguinoso dono, di un bambino al suo migliore amico, Elène. Qualcosa di magico.
Era un soleggiato mattino di tarda primavera, forse Maggio inoltrato, ed io non ricordo che i raggi luminosi del Papà delle Stelle brillare sui gorgogli dell’acqua infranta lungo gli speroni rocciosi della Gran Cascata, quella a Nord di tutti i paesi del mondo. Ricordi ancora?
Oh, certo che sì. Sono sicuro.
Tim stava lì, a dominare lo sperone più alto e prominente, circondato da due flussi ininterrotti di turbolenti acque, tra le dolci esalazioni della schiuma e gli schizzi solenni, con il suo sorriso beffardo e due archi perfetti come sopracciglia.
Ricordo che gli chiesi perché lo facesse, perché voleva lanciarsi dalla Gran Cascata, che sarebbe stato pericoloso e che non avrei voluto lasciarlo andare.
Ma tra me e lui correvano le acque feroci, zigzagando tra ciottoli scivolosi e le roccie affilate. Non l’avrei mai raggiunto.
“Lo devo fare, perché solo io posso farlo, io dei Senza Paura, Wally”, disse, portandosi il pollice all’altezza del viso, per cancellare una perla d’acqua sulla sua guancia destra.
Io gli gridai di non farlo, che era bastata la scalata del Gran Monte Bianco a mani nude, del salto tra i rami dell’Anziano Pioppo, della sconfitta di Billy il Tiranno, davanti ai ragazzini dell’orfanotrofio. Gli dissi di non farlo perché era più bravo di tutti gli adulti del mondo, che era un ragazzino magico, ed io avevo bisogno di lui.
Lui mi rispose: “Non voglio divenire vecchio, Wally”.
Mi disse proprio così, Elène, e quando io gli chiesi cosa intendesse, perché avrebbe dovuto divenire vecchio se era appena un ragazzino, lui aggiunse: “Non voglio divenire vecchio, Wally. A restare sempre fermi come te si diventa vecchi. Ad essere statici si diventa vecchi. E’ brutto essere vecchi a dodici anni, Wally. Vieni con me, inganna la morte con me!”.
Me lo propose, Elène, mi diede l’invito per il Paradiso, ed io sai cosa feci?
Gridai: “Oh sì, Tim, verrò con te, se tu affoghi, io voglio affogare con te! Non voglio essere vecchio, non voglio essere vecchio, Tim”. E quel grido sembrò più una supplica.
Elène, io ho ormai novanta anni, però, se c’è una cosa che ti posso assicurare, è che non ho mai desiderato altro nella mia vita che seguirlo. Forse è l’unica cosa che mi sia mai importata.
Ma ero uno sciocco moccioso.
Alzai lo sguardo, e tra le sferzate d’acqua ed il tumulto dei flutti il mio animo ebbe paura. Il mio spirito non cedeva alla volontà, le gambe mi tremavano e più che mai non volevo che piangere. Ma nemmeno in quello riuscivo.
Tim mi guardò, non deluso, non indifferente, ma comprensivo.
Mi guardò e mi disse: “Wally, il tuo posto non è con me, oltre le acque del fiume e le roccie appuntite il tuo animo non arriva. Forse saremo entrambi maledetti, ma come è dolce il ricordo”.
Poi aggiunse: “Per me è arrivato il momento di sentire la mia giovinezza, la mia pelle è attraversata da un brivido di voluttà e devo trattere il respiro. Addio mio buon Walter, che la vita non faccia di te uno scoglio troppo duro.”
Mi disse questo, Elène, ed io scoppiai a piangere, ma tra il fervore delle acque e l’intima sensazione del risucchio e l’irrealtà le mie lacrime rimaserò sole con me. Lui andò via.
Si guardò sotto, attentamente, e per un attimo la sua posizione scomposta ammise la sua paura. Ci stava ripensando, Elène, ne fui sicuro e le mie lacrime presero a scorrere più violente, tanto da farmi male.
Lui era forte, ahimé, e sconfisse i suoi demoni lassù, sullo sperone più alto, a tu per tu con la morte.
Si voltò ancora una volta, il suo sorriso beffardo, gli occhi che sapevano di zaffiri, di mari lontani e di abissi così gradevoli, da vivere nel silenzio e nella contemplazione della bellezza.
Infine, si gettò, Elène.
Si gettò, ed io non lo vidi più.
Tim dei Senza Paura, l’uomo più grande del mondo, scomparve per sempre, assieme alla roboante voce della Gran Cascata.
Così colui che è Senza Paura se ne andò, Elène. E non lo sa nessuno, tranne noi due.
Sai, l’altro giorno, mentre ero assorto nella lettura, ho sentito un sussurro famigliare, di una voce che diceva: “Cosa ne è stato di te, Wally?”.
Mi voltai, e corsi al di fuori per cercarlo.
Ormai, ero divenuto vittima di quelle vecchiaia che Tim voleva sconfiggere, e tra molto breve, diventerò vittima della morte stessa.
Una vecchiaia lunga settantotto anni, Elène, iniziata nel momento stesso in cui lui lasciava quello sperone, per avventurarsi nell’inerarrabile nulla.
Oh, Elène, come sono sicuro che lui sia ancora lì, tra gli alberi, dentro ogni ruscello, torrente o fiume, sulle pendici del Gran Monte. Tutto attorno.
Ed alla fine ce l’ha davvero fatta a sconfiggere la morte; non so come, ma c’è riuscito.
La mia maledizione è dunque infinita? Potrò rivederlo, tra poco, nell’aldilà? Oppure il suo animo rimarrà ancorato alla foresta per sempre? C’è forse fine a questo oblio mascherato da quiete vita?
Io non lo so, Elène, ma com’è dolce il ricordo.
Mia carissima amica, queste sono forse le mie ultime parole.
Sono cosciente del fatto che non potrò ricevere più tue notizie, quindi da’ un abbraccio fortissimo a Anthony, Tom e Mary, e promettimi di vivere la tua vità sino all’ultimo dei tuoi giorni, senza trascurare nemmeno un singolo minuto. Promettimelo, Elène, ed io ti prometto che ascolterò il tuo giuramento e sarò felice.
Almeno un po’ di più, in tutto questo.

Addio Elène, e buona fortuna.”

The day the fantasy dies

marzo 8, 2008 - Una Risposta

“Quattro giorni fa si è spento Gary Gygax, ovvero il geniale inventore di quel gioco che oggi tutti conosciamo come D&D. Un uomo che ha saputo influenzare un mondo intero e le vite di numerose persone, sfruttando la più pura e magica capacità umana: l’immaginazione.
Devo molto a lui, anche se indirettamente. Probabilmente se non vi fosse stato il D&D forse non sarei stato così bravo ad immaginare come lo sono adesso.
In suo eterno onore, ho deciso di scrivere questo breve racconto per ricordarlo, prendendo in prestito le identità dei miei tre giocatori preferiti. :)”

Il mio sguardo era fiso nell’oscurità al di là del cono di luce irradiato dalla lampada e qualche candela, e la mia stessa mente s’era fermata a contemplare quel vuoto che sembrava infinito.
Ed anche tanto affascinante.
“Angelo? Ci sei?”, chiese una voce accanto a me.
“Sì, scusa, mi ero distratto, dove eravamo?”.

Un’enorme esplosione crebbe dinanzi agli occhi trasaliti del giovane Alexander, mentre un pilastro di fumo s’annodava nell’aria grigia del primo imbrunire.
Nella miriade di frammenti fumanti e guizzanti dardi di fuoco, la testa del drago dorato si levò, avvolto da archi di polvere e rivoli di terriccio cadenti dalle cavità della propria pelle squamata.
“Come osi sfidarmi, sciocco umano!”, tuonò la creatura, mostrando con alterigia le proprie magnifiche ali.
Alexander strinse tra le mani lo spadone e sussurrò qualche parola in Celestiale, socchiudendo gli occhi e concentrandosi.
“Heironeous, dammi la forza, dammi la forza…”, ripeteva nella propria mente, dando la forma di una solenne richiesta a quel cantilenante susseguirsi di parole.
Dal cielo s’aprì un varco tra le nubi, ed una strale di divina fattura si scagliò fiera contro la punta dell’arma dell’eroe, impregnandola d’una luce santa e vigorosa.
“Con la fede io non ti temo!”, pronunciò il paladino, prima di scagliarsi contro il drago.
“Dovresti, invece!”, ribatté quest’ultimo, con una bieca e mordace ironia.
Alexander balzò lesto dinnanzi il robusto petto del drago, sfoderando una raffica di fendenti ed affondi, creando ferite e tagli di considerevoli dimensioni che, in tutta risposta, sputarono guizzi di sangue, ardente come il fuoco dei Sette Inferi di Bathor.
Il drago arretrò, in parte sorpreso dalla sortita offensiva dell’umano.
“Tutto qui, quello che sai fare?”, schernì, guatandolo con gli occhi iniettati di sangue.
Estese la sua imponente coda sopra il suo capo e la fece ricadere in una violenta sferzata tra alberi e sassi. Alexander abbassò la difesa per coprirsi dal coacervo di detriti scagliati dall’attacco del drago e, proprio il quell’istante, fu colpito da un’irruente incornata che lo scaraventò contro il tronco di una quercia.
“E’ tempo di morire, Cavaliere di Heironeous”, proclamò solennemente il drago di fuoco, inspirando una larga sacca di aria per generare nei propri magici polmoni un vortice di fiamme.
Alexander cercò di muoversi, ma fallì nel tentativo.
Per la prima volta nella sua vita, ebbe la sensazione che il gioco fosse finito.
Il drago lanciò il suo respiro ardente in direzione del guerriero ferito.
La vampa illuminò con il suo rubicondo ardore l’aere quieto dell’incipiente serata, mostrandosi avvenente ed esiziale, come una dama dagli ammalianti tratti ma dall’animo spettrale.
D’un tratto, Alexander si sentì afferrare per la spalliera.
Si voltò, per vedere illuminato dalle fiamme il volto di Tulkas, un mezz’orco barbaro.
Non fece nemmeno in tempo a realizzare cosa stesse accadendo, che il compagno lo tirò via dal pericolo, salvandolo dalla sempiterna voracità della fiamme.
“Tulkas, amico mio, ti ringrazio, credevo fossi morto!”, ammise stupito il paladino.
“Un barbaro non muore mai, Alexander!”, esclamò questi, incespicando un po’ sulle parole.
“E’ la verità, mio fiero ed immortale amico, ma adesso è tempo di porre fine alla malvagità del drago di fuoco!”, suggerì solennemente al suo compagno.
Quelle parole stimolarono l’animo di Tulkas, gettandolo nell’ira più profonda: la leggendaria ira barbarica.
Il furibondo barbaro sollevò la sua ascia impregnata dal potere del ghiaccio, mentre i suoi possenti muscoli si gonfiavano e la sua voglia di sangue diveniva di pari proporzioni alla concupiscenza serrata d’un signore Vampiro.
Il drago cessò il suo cono di fiamme, convinto della vittoria, quando vide il barbaro caricarlo con una violenza pari a quella d’una frana molesta.
Il barbaro colpì un braccio, fracassandoglielo al primo impatto e, dandosi la giusta spinta, compì un balzo che lo portò all’altezza del volto della creatura.
Afferrò le enormi corna ed iniziò a vessare il capo, provocandogli ingenti danni, in una tempesta sanguinolenta di distruzione.
Nel frattempo, Alexander posò lo spadone ed impose la sue mani sulla ferita, invocando il potere benevolo del suo dio per guarire i danni subiti.
Il drago, piegato sotto i colpi ferali del barbaro, raccolse le sue forze e generò un’ondata d’energia esplosiva, che lanciò il suo torturatore a parecchi metri di distanza, scavando un cratere di enormi proporzioni.
Anch’egli sembrava essere caduto nell’ira.
“Stolte creature, potevate morire con dignità, tuttavia, avete scelto la via del dolore!”, tuonò cupo il drago, mentre un manto di fiamme lo attorniava.
Per un’ultima ed esiziale volta, caricò il suo virulento respiro di fiamme, conferendogli il doppio, se non il triplo, della potenza prima mostrata.
Stava per scagliare il colpo sui due compagni, ormai spacciati, quando una tempesta di meteore eruppe dal cielo sereno, piombando contro il drago.
Dalla volta screziata dalla moltitudine di fiamme e dardi, apparve un elfo dalla capigliatura lucente come la luna.
“Aracne!”, gridarono i due compagni, oltremodo sollevati dalla sua apparizione.
Lo stregone si lanciò sul capo privo di sensi della creatura: “E’ tempo di strisciare, lucertolone!”, esclamò, con una sottile e cupa ironia.
“Presto Alexander, prendi la vita di questa creatura, lui non la merita più dal momento in cui ha deciso stolidamente di incrociare la mia strada.”, schernì ulteriormente Aracne.
“Non posso farlo, non è onorevole privare della vita un essere indifeso, per quanto malvagio esso possa essere!”, rispose Alexander con altezza d’animo.
“Sciocchezze da paladino! Tulkas, presto, decolla la lucertola, prima che si risvegli e ci faccia pentire di non aver fatto la cosa giusta!”, ribatté lo stregone con la solita ironia, lanciando un’occhiata carica di malizia al paladino.
“Sì, ci penso io!”, rispose Tulkas, con il suo rozzo accento barbarico.
Il barbaro sollevò la lama, pronto a rintuzzare il collo della creatura…

D’un tratto, il dado mi cadette dal tavolo, rotolando laggiù nell’oscurità.
Passai lo sguardo attorno a me.
C’era qualche manuale accatastato, i dadi sparsi per tutto il tavolo, le candele con le loro forme sgraziate o affascinanti, il tabellone eretto a dividere le scritture del master dalla curiosità dei giocatori.
Ma non v’era nessun’altro nella stanza.
In quell’attimo la fantasia tacque e l’oscurità cadde più forte nella stanza vuota.
Non so perché, ma avevo come la sensazione che quel dado, quello splendido dado, che da solo vale più di tutto un mondo, non l’avrei più ritrovato.
Mai più.

Addio Gary.

infinite forme

gennaio 4, 2008 - 2 Risposte

A: “Cos’è la vita, nonno?”.
D: “Difficile a dirsi, probabilmente è una forma.”.
A: “Una forma?”.
D: “Sì, una forma. Può essere un quadrato, un cerchio, un triangolo dalla punta molto fine. Una forma.”
A: “Non capisco”.
D: “Probabilmente non capisci perché cerchi di immaginare una forma, e di coniugare a tale figura il significato di vita, ma sbagli. L’uomo vive, e vivendo crea qualcosa, che non si distrugge e non si trasforma, ma si crea. Dal vuoto. La grande eccezione alla regola più universale.”
A: “Continuo a non capire. Un uomo cambia, è vero, ma la sua forma è sempre la stessa, non può divenire un gatto, un albero. Il cambiamento è circoscritto.”
D: “Non se estendi la tua comprensione a ciò che non vedi. Se non ancori il tuo ragionamento a solo ciò che vedi. Se non fai navigare il tuo pensiero negli sconfinati oceani della conoscenza, della saggezza. L’uomo è maledetto, sai?”.
A: “Maledetto?”.
D: “Maledetto dalla ragione. Con questa crea a suo piacimento ciò che vuole. Crea una terra con una legge di gravità stabilita, crea una divinità con poteri pari a suoi, crea eventi e miti che non esistono ed esistono al contempo. Senza manipolare nient’altro che la sua intelligenza.”
A: “…”.
D: “Può essere un uccello, e volare fra le nuvole. Può essere una quercia, sapiente e fermo. Può essere un ruscello, svelto e sconsiderato. Può darsi la forma che più preferisce, ma ciò lo spaventa. Avere controllo di se stesso, superare i propri confini dettati dalla legge morale o sociale, questo lo inibisce. Così perde la concezione di se stesso, e pensa di non essere nient’altro che un uomo.
Si pone domande sulla sua esistenza, ed ha così paura della sua creazione che la affida alle mani di qualcos’altro di trascendente, di palesemente inverosimile. Una bugia così grande a cui è disposto comunque a credere, schiavo della sua paura.”
A: “Parli di Dio?”.
D: “Parlo dell’uomo. Dio può essere quella parola che testimonia una nuova creazione, ma questo non so come spiegartelo. Hai mai provato di sedere accanto ad un uomo, od una donna, e sentirti così in sintonia con egli od ella al punto di sentirti parte di se stesso, ed al contempo parte di tutto il resto. Del cielo, della terra, del vento che in quel momento accosta una ciocca di capelli accanto al tuo viso?”.
A: “Sì, mi è accaduto.”
D: “Quello è Dio.”.
A: “Così, l’uomo può creare, e come tale conseguenza la vita ha una forma variante, come conseguenza di questo suo continuo potere. Ma come può essere una forma tale se continua a variare?”
D: “Poiché l’uomo non potrà mai estendersi nell’infinito. Può essere una forma così grande e stupenda da sembrare infinita. Grande, molto grande, che a vederla…a vederla diresti proprio: “diamine, è infinita!”. Ma non lo è, non lo sarà mai, finché si conterrà nella sua limitatezza. Cosciente della sua circoscrizione l’uomo ha paura di crescere, crescere sì tanto da esplodere in mille dimensioni incredibili.”
A: “Come può l’uomo giungere all’infinito?”.
D: “Coniugandosi con il suo prossimo, ed il suo prossimo ancora. Divenire un’unica cosa, non contare solamente su se stesso, avere il coraggio, sconsiderato! Se serve!
Avere il coraggio di estendere se stesso, non per includere qualcun altro, ma per divenirne tutt’uno. E questo processo genererà un’esplosione di mille esperienze, esperienze che si cristallizzeranno in ricordi senza tempo.
Dimensioni, ognuna con leggi diverse, con eventi diversi, con esistenze diverse. Ognuna splendida ed incredibile da non poter essere narrata.”.
La parola non nasce per spiegare il sentimento, la parola è il suono dell’esplosione del sentimento. Nasce come causa, non come strumento.
A: “E l’uomo non fa questo.”
D: “L’uomo ha paura, si chiude in se stesso. Preferisce non rischiare, di non avventurarsi nella bufera se in casa propria ha un bel camino, con tanta legna per l’inverno.
Ma la legna prima o poi finirà, e l’uomo congelerà, cristallizzerà in un unico ricordo senza tempo. Piccolo, solo. Insignificante.”
A: “Allora, esiste salvezza?”.
D: “Certo che esiste. Se l’uomo non conterrà i propri sentimenti, se l’uomo non porrà limite alla forma, amando sconsideratamente sia l’uomo che la donna, amando sia l’animale che il vegetale, cioè che è senziente e ciò che non lo è. Se l’uomo userà questo suo potere, riuscirà ad unirsi in una cosa sola con il resto dell’esistenza. Diverrà perfetto.
Hai idea di cosa si potrebbe realizzare non ponendo limiti materiali a questa concezione?”
A: “Sarebbe indefettibile.”
D: “Oh, lo sarebbe, ragazzo mio. Ma non lo è. Si ferma a ciò che vede, ha paura di ciò che crea, e così fa cadere tutto a terra, ed il cristallo esplode in uno scrosciante boato. Va tutto in mille pezzi. L’uomo non può e non deve incatenare il suo essere in tipi comuni, prefissati. Deve essere tutto allo stesso tempo.”
A: “Forse non potrà mai.”
D: “Forse no, e non resterà che un soffio di vento.” 

Un soffio di tempo.

boom! bang! crash!

dicembre 30, 2007 - 2 Risposte

An si svegliò boccheggiante, stringendosi la mano destra all’altezza del cuore e portando, al contempo, la sinistra a sorreggere il capo. Aveva come l’impressione di essersi risvegliato da un brutto sogno.
Qualcosa non definibile come un incubo, poiché non ne aveva la struttura, né la parvenza.
Aveva provato stentorei sentimenti quali disagio, di imbarazzo, tanto da sentirli galleggiare su per il corpo, sino al cervello, schizzando al di fuori, portandosi via parte di se ad ogni escursione, come a tentare una paradossale salvezza.
E poi, d’un tratto, quando piano piano la realtà un po’ di deformava che i suoni si confondevano sino a formare uno stridulo: “Run, run! Take yourself and run away!“.
Boom.
Sgattaiolò veloce a sinistra di quel mezzo su cui aveva fantasticato qualche giorno prima e puntò lo sguardo all’estrema destra, al vuoto.
Ed infine, d’un tratto, libero: per la seconda volta nell’arco di dodici mesi, questa volta con i bicchieri di cristallo stretti fra le mani, e nessun coccio per terra.
“Fiuu…”, disse alla stazione vuota, “…ma chi cacchio mi porta…”.

La storia è ciclica, un un enorme cerchio senza inizio, né fine.
Così, come finì il vecchio duemilasei inizia il duemilaotto.
Impossibile giudicare quest’anno, poiché non è possibile imputare le cause di fauste vicessitudini alla casualità (che, per definizione è casuale, e non deterministica) od a quell’entità temporale a cui affidiamo anche un’ambivalente significato di natura forse divina.
(Errore entro il quale potrei semplicemente cadere anche io).
Il termine del dodicesimo mese e la conclusione del ventiduesimo anno di età, però, può e deve essere l’incentivo per rianalizzare la strategia di vita adottata ed i successi (meglio, insuccessi) ottenuti.
Ed è per questo motivo che il duemilasette non è stato un anno di “merda” (avrei voluto dire “brutto”, ma non mi veniva!).
E’ stato, piuttosto, un anno in cui ho cercato di dimostrare qualcosa a tante persone, a volte utilizzando metodi non ortodossi.
Un anno in cui ho avuto fretta, disinserendo dal pilota automatico il modulo relativo alla pazienza, lasciando che l’aereo perdesse quota.
(ma non cade più).
Ed è stato un anno che non mi ha lasciato quasi nulla, poiché nel mio egoismo, nel mio profondo, mordace, oscuro egoismo non ho decretato mai una colpa che fosse per me stesso.
Non mi sono fermato molto a riflettere se l’istinto affiancato alla ragione potesse portare ai risultati desiderati, creando frammenti di vita, e cristallizzandoli in ricordi da portare per il viaggio.
Che non si sa mai.
E’ andata così, tutta una grande discesa con qualche botta qua e là.
La volta ha compiuto il suo giro stagionale, gli ingranaggi fanno giusto quello scatto a destra che serve per portare la lancetta dei minuti di una tacca in avanti, ed infine, con una grossa esplosione alle spalle, il piccolo An si salva, in una scena degna dei migliori film hollywoodiani.

Però.
Non è di solo male e disperazione formata una disfatta.
Benché sia quasi totale.
Sono molti i ricordi che caratterizzano il tempo passato in quest’anno, ad iniziare da un semplice giorno come un altro, ovvero quello della mia laurea (sudata al punto giusto).
Una gemma di memoria seguita dalla gita a Palermo di qualche mese fa, l’estate passata stravaccato sulla spiaggia a non pensare proprio a nulla (che l’aria mi sembrava frizzante, è vero), le conversazioni divertenti con mia sorella (via msn e non), le corse su e giù per Catania per ottenere una firma, per ricevere/consegnare un documento, il cambiamento di etichetta da “alternativo” a “finto alternativo” (e tutte le dimostrazioni del caso), le giornate passate giocando a Zelda: Twilight Princess ed a sgomitare con la Wii, le nuove amicizie fatte giù in università e la felicità di sentirsi un pochino più indipendenti di quanto si pensava (di quanto già si era), i momenti passati con tutti gli amici al completo, che questo costasse un sacrificio fegato, polmoni o (beh, un po’) cervello!
An che sporge il labbro e dice:”ma io che ci posso fare…”, An che punta il dito ed esclama:”che raggia che mi fa! che raggia!”, An che contrae le ciglia e dice:”oh, ma che vuoi dalla mia vita?”, An che alza i pugni ed urla saltellando: “sono il migliore del mondo! sono il migliore del mondo!”, An che mostra un’espressione sgomenta e dice: “guarda, io vorrei solo sapere chi cazzo mi porta, chi?!”.
Oppure An che con una smorfia esclama: “Parole piuttosto pesanti, nanerottolo!” (ponendo l’enfasi sulla prima e terza parola).

Il cielo non avrà mai le sue stelle.

Ragion per cui, finisco il duemilasettesimo anno di vita del globo terracqueo nella più completa tranquillità, proprio come accadeva dodici mesi prima.
Si prega, e ripeto si prega, per i cortesi lettori del blog con cui sono solito uscire, di non cercare di attentare alla mia tranquillità, con cose, chessò, fogli di carta vergati con strane lettere, per dirne una.
Se ciò dovesse accadere, m’incazzerò.
Patti chiari, amicizia lunga!

Con questo, credo di aver detto praticamente tutto quello che potevo dire in mezz’ora di tempo e senza nemmeno rileggere.

Non spero che il duemilaotto sia un buon anno.
Farò in modo che il duemilaotto sia uno strafottutissimo buon anno.

travel to the moon

dicembre 21, 2007 - Leave a Response

La lancetta dei minuti del grosso orologio della Spazio-Stazione fece uno scatto a destra, lanciando un echeggiante clock nell’immensa sala delle attese.
An sostava con la testa tirata in su, dirimpetto l’imponente meccanismo agganciato al soffitto tramite un braccio ricoperto di modanature liberty e numerose dorature.
Erano le sedici e trentacinque minuti: esattamente cinque minuti in ritardo rispetto l’orologio stretto al polso del ragazzo.
“Rob, ma, ehm, a che ora partiva l’ultimo treno?”, chiese il piccolo, alzando il polso a controllare nuovamente l’ora, non riuscendo affatto a realizzare che…
“Alle Sedici e Tren…oh! Siamo in RITARDO!”, gridò improvvisamente Rob, mettendo per un attimo a tacere il chiacchiericcio confuso che si sollevava tutt’attorno.
An afferrò subitaneamente la piccola spigolosa valigia ai suoi piedi, prese per mano Rob, e con sguardo deciso e voce solenne disse: “C’è solo una cosa da fare.”.
“Correre!”.
I due si precipitarono attraverso la sala gremita di gente, evitando il cumulo di valigie spinte su un carrello da un fattorino distratto, saltando sullo schienale di una serie di panchine in fila, su per le scale, e giù nuovamente scivolando sul corrimano.
Arrivati in prossimità dei binari videro una grossa locomotiva a vapore, piena di parti mobili e rotanti che sbuffavano fumo come una caffettiera od una grossa tazza di thé, staccarsi dai binari ed accendere i post bruciatori saldamente ancorati al lato dello spazzaneve frontale.
Il camino centrale lanciò un pennacchio di fumo ed uno stridulo avviso: il treno era pronto alla partenza.
Rob ed An si precipitarono verso la locomotiva, sgomitando ed osservandone attentamente i movimenti.
Quando furono sui binari, tuttavia, il treno aveva già elevato il suo pesante carico e si stava inclinando per proiettarsi verso la luna.
Rob alzò lo sguardo, notando un soprapassaggio non coperto, e lo indicò.
Il treno vi stava passando proprio al di sotto, in un moto lento, pronto ad accelerare alla sua velocità di crociera.
I due salirono le scale, arrivarono sul culmine e, sporgendosi dalle barriere protettive videro la locomotiva proprio sotto di loro.
An si voltò, “Fidati di me!”, disse, traendo un ombrello celeste dalla sua valigetta.
Rob annuì: “D’accordo”.
Fecero un rischioso balzo, cercando di atterrare sul predellino posteriore dell’ultimo vagone, quando il treno si mosse, accelerando spaventosamente e scomparendo completamente da sotto i loro piedi, a circa venti metri d’altezza.
Il ragazzino protese l’ombrello e chiuse gli occhi, sperando che il manico potesse agganciarsi ad una delle barre di ferro della ringhiera.
Da qualche parte, qualcuno, qualcosa oppure la fortuna stessa, sembrò ascoltare la speranza di An, e decise di esaudire il suo desiderio, magari perché lo meritava, magari solo perché gli andava.
Ma questo non si sa.
Il treno si proiettò attraverso le nubi, muovendo le ruote come se stesse seguendo dei binari invisibili, e lanciando schizzi di fumo nell’aere, bianchi come le nuvole che solcavano.
An e Rob, risalirono sul predellino, sollevati e spaventati allo stesso tempo, e presero posto nell’ultimo vagone.
L’arredamento era molto retrò, e sembrava di essere dentro ad uno di quei treni di fine ottocento, con le pareti lastricate da placche di legno, una fila di scarni tubi metallici a sorreggere i bagagli, le poltrone in pelle rossa e la struttura anch’essa in legno. Un tappetino rosso attraversava in lunghezza la carrozza.
Rob trasse un respiro di sollievo: “Sembra che ce l’abbiamo fatta!”, disse con un tono sollevato.
“C’è mancato poco.”, rispose An, con un’aria trafelata.
Quando il treno gettò l’ultimo grido d’avviso, i due si sporsero fuori dal finestrino per osservare il mondo fuggire lentamente da loro.
Angelo portò con se un cannocchiale, di quello allungabile usato dai pirati, ed i due lo usarono per osservare ciò che da Terra non si potrebbe mai vedere.
Videro numerosi luoghi, numerose vite procedere quiete, e si domandarono quale fosse il segreto che si celasse dietro la loro tranquillità. Un fremito li prese, quando pensarono alla storia che si nasconde dietro ogni vita umana, dei racconti che una montagna od una valle potrebbero narrare, dell’universo di storie e di parole contenute in quel piccolo mondo, di cui nessuno si accorge, alla quale nessuno si accosta, poiché molte volte si ha paura ad ascoltare.
I due proseguirono per il resto del viaggio senza dire una parola, avvolti il quel mistico silenzio che nemmeno i meccanismi turbolenti e rumorosi della locomotiva sapevano interrompere.
Passò qualche ora, prima che lo stridulo fischio della locomotiva li avvisasse della fine del viaggio.
An si portò al portello, seguito da Rob.
Prima di calare il pomello, spalancare la porta ed ammirare dello smisurato e magico panorama della visione lunare, ebbe un pensiero e si soffermò.
Si rivolse a Rob, dicendo: “Prima tu.”, con un sorriso.
“Osserva bene ciò che vedrai, poiché mai come adesso Terra e Luna ti sembreranno magiche.”.
Rob non aggiunse nulla, ma sorrise ed annuì.
Aprì il portello, e ciò che vide la riempì più dello scoppio di mille fuochi d’artificio, più del levarsi di uno stormo di mille gabbiani, più dell’alba più bella, più d’ogni più conturbante desiderio.
Vide la Terra accendersi di un blu intenso e d’un bianco luminoso, imponente ed allo stesso tempo benevola, sospesa in un nulla ch’avrebbe definito divino, poiché conteneva e possedeva il significato trascendente dell’onnipotenza.
Il pavimento sembrava una composizione di ciuffi di panna e di pennacchi argentati.
Un bagliore soffice permeava l’aria tutt’attorno, rendendo la visione simile ad un sogno.
E forse lo era davvero.
Rob ed An scesero, ancora una volta senza dire una parola, le visioni avevano sottratto loro la voce.
Nel bianco sconfinato, su di un rigonfiamento roccioso sul quale era tracciata una via, sorgeva un chiosco colorato, con una grande insegna luminosa: “Finney’s Chocolate.”.
“Stai pensando anche tu quello che penso io?”, chiese An, con un sorrisino incipiente sul volto.
“Mmm, credo di sì”.
Si avvicinarono al chioschetto, ordinarono due cioccolate calde che vennero loro servite in una tazza celeste ed una rossa, ornati da una spira di panna ed un velo di cacao.
An rimase a contemplarla con deferenza.
“Beh, questa è la visione più bella!”, aggiunse scherzosamente.
Camminando l’uno accanto all’altra, con la tazza di cioccolata fumante portata al livello del mento, ed il naso rosso a causa del freddo, si diressero verso un picco di roccia non molto distante.
Si sedettero sul bordo ed iniziarono a sorseggiare la loro bevanda, mentre la luna roteava attorno alla terra, e l’aria veniva permeata dal dolce suono di un pianoforte, posto da qualche parte, laggiù tra le valli lunari.
Quelle note avevano il gusto di pace, di libertà, e di cioccolata.
Pareva che Luna e Terra danzassero cortesi, compiendo lunghi e leggiadri movimenti, tanto che la musica sembrava essere eseguita solo per loro, che vagasse per l’universo per scandire il tempo ed il movimento d’ogni corpo celeste.
An e Rob videro tutto questo, e lo ascoltarono, come in una profonda meditazione.
Tanto profonda da cancellare il freddo, cancellare il calore, da donare loro la freschezza del più profondo degli oceani e la tranquillità del picco più alto di tutte le montagne.
Fu così, ed in quel preciso istante, immersi nell’atmosfera onirica di quella realtà che sapeva di sogno, che i due si sentirono.

Bene.

Visions

dicembre 8, 2007 - 4 Risposte

Faceva un po’ di freddo, ed era pure normale, in quella oscura notte di un venticinque dicembre di cui nessuno aveva molta memoria. Pensò così, Angelo, seduto ai piedi di una quercia dalle radici lunghe ed arricciate, che facevano capolino dal lenzuolo bianco steso attorno.
Non v’era anima viva, e la neve, nel suo incedere lento, nella sua ricerca del sodalizio con la nuda terra, scivolava nell’aria generando lo stesso suono di un pattino che verga un pavimento di ghiaccio.
Shhh, shhh, shhh.
Shhhivolava.

Faceva freddo nel cuore foderato del suo enorme pastrano, quindi pensò di procurarsi del calore, accedendo una sigaretta nel culmine della notte. Perché pensava che l’avrebbe riscaldato non sapeva, però quel gesto aveva uno strano potere apotropaico; forse non gli avrebbe conferito calore, è vero, ma sicurezza, questo è certo.
“Come si gela qui fuori, non provavo di certo questo al di sopra dei Quattro Venti, ammirando il mondo. C’era molto freddo, ma non questo, no.”, sussurrò una voce, al lato dell’arbusto.
Angelo spostò gli occhi su di una figura avvolta in tre spire di un mantello così scuro da non avere tratti distintivi, e due occhi che brillavano di un lucore affascinante.
Non provò paura.
“Tu sembri avere un grosso problema.”, affermò, e si chiese il perché di quella frase.
“Sì, sai, vorresti sentire la mia storia? Non parlo con un bambino da circa duemila anni.”, chiese con garbo.
“Sì, beh, davvero. Ho ventidue anni.”.
“Cosa?”
“No no, nulla; racconta.”.
La figura si trasportò accanto a lui, si mise a sedere aiutandosi con il tronco scuro della quercia e si scrollo un po’ di neve dalle spalle.
“Molto tempo fa, c’era uno spirito ancestrale che aveva il compito di vegliare e assistere gli uomini.”.
“Interessante.”, commentò il ragazzo, con un velo di palese ironia.
“Ogni anno, attorno a questo periodo, usciva dalla sua dimora sopra i Quattro Venti, e lasciava andare una parte di sé per ognuna delle correnti, attirato dalle aure benevole degli esseri umani, dai bambini soprattutto”, continuò la misteriosa figura, volgendo lo sguardo verso il sipario di fiocchi di neve che si mostravano roteanti dinnanzi a lei.
“Il vento la portava dovunque, attraversando le distese acquatiche del Pacifico, sopra le vette delle montagne più alte, tra i ruscelli ed attraverso gli alberi, e le foglie! Loro fremevano al suo tocco, ed era così bello essere trasportata verso quelle balugini bianche.”.
Angelo la scrutava, cercando di filtrare la sua voce, analizzando le parole, ma non trovando nulla di falso, o di poco sentito. Parole dal profondo del cuore.
Se il cuore potesse parlare, s’intende.
“Questa figura entrava dai comignoli dei camini, o attraversava gli spifferi non coperti delle case, o dentro qualsiasi altro passaggio che potesse condurla al posto in cui voleva arrivare.”
Un po’ di cenere macchiò la neve, il ragazzo non stava anelando più fumo.
“E solo allora, nel profondo della notte, sfiorava le loro anime e donava loro una visione.”, rivelò.
“Una visione?”, domandò il ragazzo, non sicuro di comprendere la destinazione di quella storia.
“Sì, una visione del loro futuro, un vaticinio delle loro scelte, come un sogno e mai un incubo. Alcuni preferivano dei bei sogni colorati, altri le sfumature di grigio, così intime, magari una finestra ed il grigiore di un temporale. Ci sono molti modi.”.
“Non credo di capire.”, confessò Angelo, odiando il proprio scadente acume.
“Davo loro una guida, una speranza. La speranza che la loro vita potesse andare proprio come avrebbero desiderato. Era un gran bel dono, il più grande. Li rendeva uniti, li rendeva perfetti.”.
“E proprio così erano, tutti gli uomini, perfetti, poiché stavano assieme tutti i giorni dell’anno, e si volevano bene. Ognuno dipendeva dall’altro e nessuno aveva l’egoismo di ammettere il contrario. Le persone non si cercavano, si trovavano già, e non commettevano errori. O perlomeno, non tanti.”
Sorrise malinconico, Angelo si illuse di poterlo notare, attraverso la barriera di nulla dal color nero che celava il volto del suo narratore.
“Così, pensò di prendersi una pausa, almeno per un anno, aveva lavorato per tanto tempo, e desiderava un po’ di riposo. Perlomeno un pochino.”
Sorrisero entrambi, stavolta.
“L’anno dopo, però, uscita al di fuori dalla sua dimora non fu attratta da alcun calore benevolo, sentiva solo fioche rimanenze, e fu terrorizzata.
Il vento si rifiutò di trasportarla, e lei temette il peggio, che gli uomini fossero morti, che durante la sua assenza fosse accaduto qualcosa di incredibilmente malvagio!.”
Il ragazzo non si accorse di aver aperto un po’ la bocca, con deferenza ed ammirazione verso la storia raccontata. Vi credeva, era sicuro fosse vera.
“Così, tutte le parti di me si mossero da sole, viaggiando nella fredda notte e giungendo in una grande città degli umani. Ma quello che vide, fu tutt’altro che rincuorante.”.
“Cosa vide, allora?”, chiese preoccupato.
“Grandi palazzi sfidare il cielo, ricoperti di luce e enormi cartelli rossi, ciminiera lunghe decine di metri che sputavano fumo, e tante bestie di ferro e ruote che sfrecciavano attraverso strade desolate.”.
“Desolate…”, ripeté pedissequamente.
“Si erano dimenticati di me? No, peggio ancora.
Avevano storpiato la mia figura, mi avevano reso grosso, con una brutta calzamaglia bianca ed una giacca rossa con bordature bianche. Ed il nomignolo, assolutamente fuori luogo. Non ero nulla di questo.
Avevano perso la guida, erano disperati, così inventarono tante religioni per darsi un senso, e crearono una nuova festa, privandola del suo significato.
Preferirono scambiarsi doni, pensando che quello avrebbe dato loro l’affetto che gli mancava. Ma non era così, non stavano più uniti, si stringevano al calore delle loro case. Forte, poiché al di fuori il mondo si era trasformato.”
“Mi sentii colpevole, così decisi di visitare una di quelle fioche luci che rimanevano.”
“E cosa vedesti?”.
“Lo trovai dinnanzi ad un grosso pannello nero che generava luce in un modo misterioso. Era scuro, però il bambino non sembrava staccargli gli occhi di dosso. Era affascinato.”
Angelo ci pensò un po’ su, cercando di capire cosa intendesse.
“La televisione? Non può essere, lei è capace generare immagini, luminose e colorate.”
“Dici? Io non ci vidi nulla. Non generava niente, a parte un po’ di luce, come una candela.”.
“Beh, molte volte non ci vedo nulla nemmeno io.”, rispose amareggiato.
“Cercai di donargli una visione, uno dei miei doni. Ma non lo voleva, aveva di meglio, aveva qualcosa di materiale, aveva un’illusione. Quella che, almeno quel giorno, il mondo non fosse malato, che gli umani si volessero ancora bene. Ma non era vero.”, narrò tristemente, staccando alcune lacrime.
“Così andai, non c’era più posto per me, e restai ad ammirare il mondo dal culmine dei Quattro Venti, malinconico ed accorato, per quel mondo che non trovava più se stesso, pieno di morte e di infelicità.”.
La figura si alzò, sfilandosi l’abito scuro di dosso e mostrando la sua vera essenza.
Ma non posso scrivere ciò che vidi, era così…sperticato.
“E tu, Angelo, ce l’hai un sogno?”, chiese, teneramente.
“Io-io, non lo so, li ho persi ormai tutti.”, rispose.
La figura sorrise, e fu come vedere sorgere l’alba.
“Io quella la butterei, ormai è inutile.”, consigliò, indicando lo stelo della sigaretta, ormai ridotto ad un cilindro di cenere impilata.
Angelo la lasciò cadere, ed osservò la figura allontanarsi, rischiarando le ombre proiettate dai pini, e sciogliendo la neve sotto i suoi piedi in acqua.
“Non dimenticare di dire tutto quello che in cuor tuo ha vita, sempre.”, disse, ed un soffio di vento gli prestò la voce. O forse fu vero il contrario.
D’un tratto.

“Angelo, mi senti? Oh, ma che hai?”, riprese una voce fuori dal campo.
Il ragazzo batté gli occhi.
In mano stringeva due bacchette, assiso dinnanzi una struttura di tamburi e piatti.
“Sì? Sì, dimmi.”, rispose, non realizzando bene cosa gli fosse accaduto.
“Non hai fatto il passaggio, ti sei interrotto, sono almeno trenta secondi che sei così. Ma stai bene?”, chiese preoccupata una ragazza dal volto delicato e preziosi capelli ricci che le scivolavano in mannelli sotto le spalle.
“Sì, credo di sì, ricominciamo”, rispose, solo dopo aver capito cosa fosse accaduto, quel giorno, proiettando i suoi occhi, i suoi pensieri, a quella figura misteriosa, dai lunghi capelli ed il manto bianco come la neve, immobile ad osservare un mondo povero.
Adesso un po’ di meno.
“Ah, Laura, prima che me ne dimentichi.”.
“Mh, sì?”.
“Ti voglio bene.”.

Non dimenticate di volervi bene.
Da qualche parte, in qualche luogo, qualcuno resterà male per questo.